In Ghana esistono dei re Asante, uno principale e altri minori (capi). Hanno degli schiavi che chiamano “sheeps” (pecore). Mia madre era una schiava. Alla morte di un re è consuetudine offrire in sacrificio alcuni schiavi perché vengano sepolti assieme a lui. Mia madre fu scelta per essere sacrificata, ma fu salvata da una regina che la vide particolarmente umile e s’impietosì. Poco dopo mia madre rimase incinta di me. Non so chi fosse mio padre. Mia madre morì quando avevo un anno e mezzo a causa di emorragie. È la donna che la salvò dal venire sacrificata che si occupò di me. Mi portò in una fattoria di sua proprietà. Fino ai quattordici anni rimasi lì, dove imparai a fare il carpentiere. A quel punto mi reclamarono come servo nel mio villaggio.
Mia madre aveva supplicato la regina di farmi crescere libero e quest’ultima lo promise. La regina mi diede i soldi per viaggiare e mi mise in contatto con una persona che mi avrebbe portato in Libia, perché considerato un posto sicuro e lontano. Vi arrivai nel settembre del 1997. All’ingresso in Libia mi chiesero la “patacca” per entrare. Siccome ne ero sprovvisto, mi arrestarono. In carcere erano praticate continuamente delle torture. Ci picchiavano prima di darci da mangiare e il cibo spesso non era sufficiente. Eravamo stipati in tanti in una stanza senza il bagno.
Dopo un anno di carcere ci deportarono nel deserto del Niger in centocinquanta. Tutti stranieri africani. Nel deserto ci lasciarono liberi senza darci né acqua, né cibo. Uno dei soldati era nero e io lo implorai per avere dell’acqua. Me ne diede una bottiglia e mi disse di non andare nella direzione del Niger, ma di tornare in direzione della Libia aggirando una montagna e passando accanto al campo militare approfittando del buio e della notte. Ci muovemmo in piccoli gruppi e camminammo tutta la notte. Alcune persone, le più deboli, morirono nel deserto.
Arrivammo a Bagarat alle sei del mattino, dove trovai altri ghanesi che portarono me e altri due a Tripoli. Per circa un anno vissi con altri ghanesi che mi insegnarono il lavoro di muratore. Lavorando conobbi un libico il quale mi volle in casa a servizio e mi accolse come parte della sua famiglia. Quando la guerra iniziò mi disse che la cosa più sicura per me che venivo dall’Africa subsahariana era partire per l’Italia. Io avevo paura del mare. Gli dissi che non volevo partire perché non conoscevo nessuno in Italia, ma un giorno una bomba cadde vicino a casa nostra e dopo questo fatto cambiai idea. Arrivammo in Italia grazie all’aiuto di una nave militare italiana che ci soccorse. Nella nostra barca l’acqua entrava da tutte le parti e il pilota aveva smarrito la rotta.
Richiedente asilo ghanese