Spesso quando si parla di richiedenti asilo e rifugiati ci si preoccupa di come gestire l’ingente flusso di sbarchi, di come fare per dare accoglienza a un numero sempre crescente di persone che arrivano stremate e prive di tutto, della spesa pubblica che ciò comporta, dell’operato del terzo settore, delle malattie che i migranti portano con sé. Ci si preoccupa dell’imminente, con la lungimiranza di chi non vede oltre il proprio naso. Come se una volta salvati dal mare, visitati e accolti in strutture dove si garantiscono loro vitto e alloggio per qualche mese si risolvesse la questione. Ma che succede dopo? Che succede quando escono dalla “macchina dell’accoglienza” con un permesso di protezione per motivi umanitari o di protezione sussidiaria (secondo il CIR su 27.930 richieste di protezione internazionale nel 2013, solo 3.110 persone hanno ottenuto l’asilo)? Come se la cavano? Come possono riuscire a inserirsi nel debole mercato del lavoro, se a stento hanno imparato qualche parola di italiano e non hanno idea di come presentarsi a un colloquio?
Ma anche in questo esistono le eccezioni: i fuoriclasse, quelli che hanno quel qualcosa in più che permette loro di distinguersi da tutti gli altri ed emergere. La Repubblica ha dedicato un articolo ai migranti sbarcati a Lampedusa che grazie alle loro qualità sportive sono riusciti a inserirsi nella società d’accoglienza e a fare carriera come il guineano Salim Cissé che è diventato un calciatore da Europa League e il somalo Sheik Ali che è un campione dell’atletica leggera. Ascoltare queste storie a lieto fine fa piacere, ma sono un’eccezione. Non tutti hanno quell’X Factor che rende più facile “riuscire”, sarebbe necessario organizzare percorsi mirati di inserimento sociale e lavorativo per le persone che vengono accolte, in preparazione al cruciale momento dell’uscita dalle strutture di accoglienza.