30
luglio

Basta pasta! Una mattina da operatrice nell’ex CIE di Bologna

Foto di Caterina Soldati

Foto di Caterina Soldati

Sono tanti, davvero tanti. Mentre servo meccanicamente la colazione tento di guardarli uno ad uno, chi vuole il tè, chi il succo di frutta, chi solo il latte con tanto zucchero. Alcuni mi ringraziano, altri non mi rivolgono nemmeno un sorriso. Cerco di immaginare il loro stato d’animo e capisco di partire subito dal presupposto sbagliato. Non c’è nessun “loro”, ma tanti “lui” e tante “lei”, ci sono 200 persone distinte che vivono l’esperienza comune di essere richiedenti asilo a Bologna, ospitati presso l’ex CIE che ora ha aperto i suoi cancelli ed è diventato un centro di prima accoglienza.

E allora inizio a vedere P. che vuole imparare l’italiano nel più breve tempo possibile perché “no italiano, no lavoro”; vedo A. che arriva in accappatoio come fosse in vestaglia da notte e porta la colazione anche alla sua amica B. perché non si sente bene; vedo L. che ha sentito che le donne verranno trasferite ed è preoccupata perché non vuole essere separata da suo marito. Finita la colazione è il momento della distribuzione delle sigarette e delle lunghe file per telefonare. Tutti hanno ricevuto una scheda telefonica e non vedono l’ora di mettersi in contatto con i propri cari, dire: “sono arrivato, sto bene, sono in Italia”. Poi arriva il medico che apre il suo ambulatorio e presto si crea un’altra fila, chi ha male alla schiena, chi a una gamba, chi ha la tosse, chi la febbre.

La polizia nel frattempo sta procedendo con i foto-segnalamenti, uno ad uno gli ospiti della struttura lasciano le proprie impronte digitali, vengono registrati e iniziano ad avere un’identità legalmente riconosciuta dallo Stato italiano, un’etichetta con tanto di nome, cognome e data di nascita (molto spesso “pasticciati” perché gli sbagli di ortografia e i fraintendimenti sono all’ordine del giorno). Servono vestiti, biancheria intima, scarpe, sapone. Noi operatori veniamo subissati di richieste, ma le cose da fare sono tante e non è possibile accontentare tutti. Però a volte capita, anche senza troppa fatica, di riuscire a dare un po’ di gioia. E. è così felice delle sue scarpe nuove e dei suoi pantaloni. Mi dice che li ha indossati sabato sera per uscire e si è divertito tantissimo.

Ma è già ora di servire il pranzo: un primo, un secondo, pane, posate e bicchieri di plastica. Un ragazzo mi si avvicina e mi dice timidamente che non ne può più di mangiare la pasta, mi viene da ridere, gli dico che quella di oggi non è uguale a quella di ieri, ma non sembra che il mio discorso riesca a convincerlo. Prende il suo vassoio con aria scettica e un po’ scocciata. Possibile che ci sia qualcuno che non apprezza un piatto di pasta? Eccome se è possibile! Non è l’unico, presto mi porta un gruppetto di amici che mi ribadiscono lo stesso concetto. Basta pasta!

Devo ricordarmi di riferirlo alla mia responsabile, nel frattempo annuisco, dico di avere capito e che farò presente il problema. I più mangiano senza obiettare, distratti solo dalla partita alla TV. Tutto il mondo è paese, penso. Che vengano dall’Italia, dalla Nigeria, dal Gambia, dal Pakistan o da qualsiasi altro paese gli uomini amano mangiare guardando la partita e facendo più sporco possibile. Non so se arrabbiarmi o sorridere. Tra poco finisco il mio turno e passerò le consegne ai miei colleghi del pomeriggio. Respiro, sorrido e prendo la scopa in mano. Qualche ragazzo si offre di aiutarmi a dare una pulita ai tavoli.

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